Intervenendo per il il restauro sull’edificio preispanico, oltre a rinvenire i resti di policromia rossa originaria, è stato individuato un accesso sul tetto della casa D, che conserva tre gradini...


a cura della redazione 1 luglio

Dopo quattro anni di lavoro sul campo, un gruppo di restauratori ha confermato che il tetto del centro cerimoniale e amministrativo della città di Palenque, nel Chiapas, noto come il Palazzo, era dipinto di rosso. Intervenendo in modo integrale sull’edificio preispanico, dai suoi tetti alle sue fondamenta, gli specialisti hanno registrato importanti scoperte; tra le più recenti, il rinvenimento di resti di policromia rossa originaria. Durante il restauro è stato anche individuato un accesso sul tetto della casa D, che misura 75 per 45 centimetri, che conserva tre gradini. La recente scoperta porta gli esperti a ripensare gli usi dati in passato ai tetti (PDF). 

Si tratta dell'edificio Maya più emblematico della zona, costituito da quattro costruzioni: le cosiddette case B, C, D ed E. Questi lavori hanno permesso di rilevare anche un vecchio accesso sul tetto della Casa D, dove sono stati rilevati i resti dell'originaria policromia rossa. 

LO SAPEVI CHE - Contrariamente agli Antichi Egizi, i Maya costruivano le piramidi raggruppando piccole pietre che furono poi ricoperte di stucco e dipinte di rosso, a simboleggiare il Ch'ulel o energia vitale (sangue), di cui imbevevano le loro piramidi per compiere l'Atto di Potere. Ed è per questo che I Maya chiamavano le loro piramidi Witzob' (Montagne Magiche).

Il condirettore del progetto di Conservazione architettonica e finiture decorative del palazzo, Haydeé Orea Magaña, insieme all'archeologo Arnoldo González Cruz, ha spiegato che la posizione del frammento policromo, che misura 1 metro per 85 centimetri, era all'estremo nord della Casa D, pur rimuovendo il cemento che era stato posto in un precedente restauro, effettuato dall'archeologo Jorge Acosta, tra gli anni '60 e '70, quando fu posato il cemento che la proteggeva. La traccia di pigmento rosso, prodotto da ossidi di ferro e altri minerali, è stata nuovamente ricoperta da strati protettivi e intonaci di calce e sabbia, per garantirne la permanenza in futuro. Se fosse stato lasciato scoperto, il colore si sarebbe presto degradato. 

Nel periodo classico (250-1000 dC), Palenque fu una delle più importanti capitali Maya. Raggiunse il suo apogeo sotto il regno di Pakal (615-683). I Maya consideravano Palenque, una città che conoscevano come Lakamhá, la capitale di uno dei quattro settori del loro mondo. Questa era limitata alle giungle della Mesoamerica (la vasta regione storica formata dal Messico e dall'America Centrale), e si estendeva per poco meno di 300.000 chilometri quadrati che oggi sono divisi in quattro paesi: Messico, Guatemala, Belize e Honduras. 

LO SAPEVI CHEIl corredo della Regina Rossa. Quella di Pakal II non è l'unica tomba rilevante a Palenque. Proprio accanto al tempio che protegge la cripta di quel sovrano c'è un insieme di templi, costruiti nell'VIII secolo, che proteggono le tombe di importanti membri della dinastia Palenque. Nel Tempio XII, o Tempio del Teschio, è stata trovata una stanza a volta contenente alcune ossa umane frammentate e numerosi oggetti di giadeite. Il tempio più importante di questo complesso è senza dubbio il Tempio XIII o Tempio della Regina Rossa, all'interno del quale è stata edificata una struttura funeraria a tre vani voltati, divisi da ampie mura. Nella sala centrale è stato rinvenuto un sarcofago monolitico, coperto da una lapide, con lo scheletro di una donna intorno ai 40 anni, accompagnato da sontuosi corredi funerari.

La stessa policromia si trova in una camera funeraria scoperta 23 anni fa a Palenque, una tomba reale di circa 1.500 anni fa, si trova all'interno del Tempio XX ed è, secondo l'INAH, almeno due secoli più antica della tomba di Pakal. Per le date siamo antecedenti alla nascita della dinastia Palenque, intorno all'anno 400. Si potrebbe parlare del recinto funerario del suo fondatore, anche se questa rimane ancora una speculazione. Questo spazio potrebbe essere un'anticamera, perché non sappiamo cosa c'è sotto. Studi sui murales hanno rivelato un'alta concentrazione di solfuro di mercurio o cinabro, un pigmento molto apprezzato in Mesoamerica. La camera funeraria, però, non contiene solo la pittura murale, perché sulla soglia ovest ci sono anche frammenti di un tessuto di colore grigiastro che è attaccato a un cornicione, mentre nell'accesso alla camera principale, ci sono dipinti rinvenuti negli stipiti. Forse i pigmenti che sono stati applicati su questa superficie contenevano un legante per gomma base da una pianta locale. 

A differenza delle camere funerarie di Pakal e della Regina Rossa, la camera o l'anticamera del Tempio XX non ha un sarcofago, almeno da quanto scoperto sino ad ora, ma ha murales in vivaci toni di rosso sui tre lati, con rappresentazioni di dei Nove Signori di Xibalba, o del mondo sotterraneo, che appaiono anche, modellati in stucco, nella tomba di Pakal. I murales mostrano questi personaggi mitici che indossano copricapi, scudi e sandali. Si tratta di un recinto funerario del primo classico (400-550 dC), uno dei pochi esempi di murales scoperti in contesti funerari a Palenque. Quest'anno saranno avviati gli interventi di riparazione e consolidamento dei rilievi stuccati dei nove signori della notte che circondano la camera funeraria del sovrano K'inich Janaab' Pakal, ospitata nel Tempio delle iscrizioni. Quali altri segreti scopriremo?


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022


a cura della redazione, 13 giugno 

Mentre completava gli scavi sul lato occidentale del museo all'aperto presso l'obelisco del re Senusret I, a Mataria, una missione archeologica congiunta egiziano-tedesca, è riuscita a scoprire nel Tempio del Sole blocchi di pietra granitica dell'epoca del re Cheope, secondo faraone della IV dinastia nella prima metà del periodo dell'Antico Regno (XXVI secolo a.C.), oltre alle fondamenta del cortile di un tempio che risale all'epoca del Nuovo Regno, e una serie di statue e altari. 

La missione stava scavando nell'antica città di Heliopoli, un importante centro religioso. Gli archeologi hanno scoperto grandi blocchi di granito nelle rovine del Tempio del Sole, che rappresentano la prima scoperta del periodo del faraone Cheope nella regione di Ain Shams. Mustafa Waziri, Segretario Generale del Consiglio Supremo per l'Archeologia, ha annunciato la scoperta in un comunicato stampa, suggerendo che la pietra potrebbe aver fatto parte di un edificio un tempo situato presso le Piramidi di Giza e successivamente spostato e riproposto tra la XIX e la XX dinastia. Sarebbe stato usato come materiale da costruzione nell'era Ramesside, un periodo in cui erano comuni le pietre di edifici storicamente più antichi. 

Ayman Ashmawy, responsabile della divisione delle Antichità Egizie presso il Consiglio Supremo e capo della missione da parte egiziana, ha aggiunto che sono state rivelare alcune prove dell'esistenza precoce di quest'area, poiché molti strati archeologici risalgono all'epoca della dinastia Zero (periodo Naqada). 

Sono stati recuperati anche diversi strati di macerie ceramiche, che indicano l'attività religiosa e rituale nel III millennio a.C. nel sito, e testimonianze che indicano una grande presenza durante l'epoca della III e IV dinastia, come un pezzo di granito appartenuto al re Pepi I (2280 a.C.). Su di esso c'è un'iscrizione prominente del falco di Horus. È stata anche rivelata la base di una statua del re Amazis, o Ahmose II, parti delle statue a forma di sfingi, che sono considerate prove dell'uso e della presenza reale nel tempio, oltre a tracce di un certo numero di faraoni, tra cui i re Amenemhat II, Senusret III, Amenemhat III, Amenemhat V, Thutmose III, Amenhotep II e III, Horemheb, Ramses II e re Seti II. 

Dietrich Rau, capo della missione da parte tedesca, ha spiegato che la missione è riuscita anche a scoprire parti dei sarcofagi e degli altari dell'era dei re Amenemhat IV, Sobekhotep IV, Ay, Seti I, Osorkon I, Takelot I e Psamtik I, oltre a rivelare un modello scultoreo in quarzo a forma di "Sfinge" del re Amenhotep II, e la base di un'enorme statua di scimmia di granito rosa di un babbuino. 


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022

Gli ultimi sondaggi effettuati a Rapa Nui mostrano che gli insediamenti e i siti dove sono ubicati i giganteschi Moai di pietra sono marcatori di sofisticate tecnologie edificate anticamente per attingere a sorgenti d’acqua potabile sotto il mare…

Gli ultimi sondaggi effettuati a Rapa Nui mostrano che i Moai sono marcatori di misteriose strutture edificate anticamente sopra sorgenti artificiali di acqua rituale…


a cura della redazione, 4 marzo

Gli scienziati hanno finalmente risolto il mistero di come gli abitanti di Rapa Nui potessero dissetarsi bevendo direttamente dal mare. Lo riportavano i resoconti degli europei che nel XIX secolo arrivarono per la prima volta sull’Isola di Pasqua. Qui non ci sono sorgenti visibili, né fiumi o torrenti, ma solo tre piccoli laghi craterici, che possono prosciugarsi durante i periodi di siccità. Ciò significa che anticamente l'acqua dolce, su questo piccolo punto di terra nel Pacifico, era scarsa. I sondaggi effettuati sul terreno hanno dimostrato, però, che gli insediamenti del popolo che costruì i Moai, e le piattaforme su cui erano collocate le gigantesche statue monolitiche, si trovano quasi tutti sulla costa, vicino a fonti nascoste, che a quanto pare richiesero la costruzione di "dighe" sottomarine, presumibilmente molto più antiche dei primi coloni. Chi e come le abbia costruite non è ancora chiaro. In un nuovo studio, pubblicato a metà del 2021, rimasto poco noto, tali fonti artificiali di acqua dolce sono descritte come il fulcro della vita e della cultura delle comunità di Rapa Nui, non solo per sopravvivere a lunghi periodi di siccità. Erano luoghi sacri ancestrali.

LO SAPEVI CHE - Nella zona dell'Hanga Ho'onu troviamo due impressionanti ahu, Ahu Heki'i e Ahu Te Pito Kura, entrambi circondati da estesi insediamenti umani e da evidenti luoghi rituali. Ahu Te Pito Kura è il luogo del più grande moai. Il suo pukao (cappello rosso) è il più grande di tutte le sculture presenti sull'isola. Il moai ha un’altezza di quasi 10 metri e probabilmente pesa circa 80 tonnellate. Il pukao ha dimensioni altrettanto impressionanti, 2 metri di altezza e un possibile peso di 11,5 tonnellate. Quello di Hekii misura invece circa 5 metri di altezza. La modellazione cronologica bayesiana indica che Ahu Heki’i fu eretto 70 anni dopo l'insediamento umano iniziale di Rapa Nui e le analisi del modello di insediamento mostrano un'occupazione continua della regione di Hanga Ho'onu durante tutto il pre-contatto e all'inizio del periodo storico, suggerendo fortemente una lunga associazione temporale tra attività domestica e rituale adiacente a una sorgente di acqua dolce.

Questa stranezza della natura era stata aggiunta all’elenco dei misteri locali. Perché scrivere che "bevevano dal mare"? In un primo momento gli studiosi hanno pensato che si riferissero al ciclo dell'acqua e all'acqua piovana raccolta dai taheta, piccoli bacini di pietra scolpita sparsi in tutta l'isola.  Non riuscivano a spiegarsi, però, perché mano a mano che si sale, lontano dalla costa, se ne trovano sempre meno? Senza considerare che questi presunti bacini di raccolta dell'acqua dal cielo erano inaffidabili come fonti permanenti, date la variabilità delle precipitazioni e gli alti tassi di evapotraspirazione. Durante le loro indagini, i ricercatori hanno scoperto che l’approvvigionamento di acqua potabile proveniva da “infiltrazioni costiere” d’acqua dolce, in perfetta corrispondenza con i siti cultuali dell'isola cilena, che si trova nel punto più sudorientale del Triangolo Polinesiano in Oceania.

IL SIMBOLISMO DELL'ACQUA

 La nozione di acque primordiali, di oceano delle origini è pressoché universale. Si trova persino in Polinesia e la maggior parte dei popoli australoasiatici localizza nell’acqua il potere cosmico. Si rileva con frequenza nel mito dell’animale che si tuffa, come il jabali indu che riporta un po’ di terra in superficie. Origine e veicolo di tutta la vita l'acqua è saggezza e in certe allegorie tantriche rappresenta il Prana o soffio vitale. Sul piano fisico, perché anche dono del Cielo, è un simbolo universale di fertilità. Come elemento liquido, instabile, ricettivo e dissolvente, circola, bagna e feconda. I suoi significati simbolici sono molteplici, ma possono ridursi a tre temi principali: fonte di vita, mezzo di purificazione e centro di rigenerazione. Le acque, come massa indifferenziata, rappresentano l’infinita varietà del possibile, contenente tutto ciò che è virtuale, informale, il nucleo germinale delle cose, ogni premessa dello sviluppo. Immergersi per riemergere senza dissolversi in esse, salvi da una morte simbolica, significa tornare alla fonte originaria ricorrere all’immenso deposito di potenziale da cui estrarre nuove forze. In quest'ottica le sorgenti di Rapa Nui rappresentano le fonti della Linfa Primordiale che riemerge dal cuore della Terra attraverso le sue vene con le quali ridistribuisce l'”acqua di vita”, la linfa divina, dolce all’inizio, intorbidata da tutte le scorie e da tutti i detriti, fino a divenire amara e salata quando forma la massa oceanica che circonda l'isola.

Incredibilmente, le prove archeologiche hanno dimostrano l'uso di tecniche di gestione per intrappolare le acque dolci sotterranee prima che si mescolino con l'acqua di mare. Questo è meglio documentato attraverso la costruzione di "pozzi" noti come puna, scavati, a tratti lastricati e talvolta murati.

LO SAPEVI CHE - Rapa Nui e le sorgenti d'acqua dolce citate nei resoconti storici (DEM proveniente da https://earthexplorer.usgs.gov) - Nel suo primo lavoro etnografico, “La Tierra de Hotu Matu’a: Historia, Etnologia, y Lengua de Isla de Pascua”, Sebastian Englert rilevava l’esistenza di una grande ritenzione idrica caratteristica, ora distrutta, all’interno di Hanga Te’e che serviva a bloccare la miscelazione dell’acqua dolce con acqua salata. 

Con l’aiuto dei droni, gli studiosi hanno acquisito una comprensione più profonda di come la gente di Rapa Nui si garantisse tale approvvigionamento idrico. Gli antropologi hanno scoperto che la raccolta dell'acqua dolce avveniva prevalentemente dalle sacche di infiltrazioni costiere, e che erano state costruite vere e proprie "dighe sottomarine" nell’oceano per mantenere l’acqua dolce separata da quella marina, oltre a pozzi che la reindirizzavano dalla falda acquifera prima di raggiungere il mare. 

Per identificare le infiltrazioni costiere, gli studiosi hanno utilizzato la tecnologia dei droni con termocamere, una pratica utilizzata in studi simili in luoghi come le Hawaii. La ricerca con il telerilevameto, è stata guidata da Robert Di Napoli, del Dipartimento di Scienze Geologiche della Binghamton University di New York, in collaborazione con il Programma di Studi Ambientali del Dipartimento di Antropologia dell’Harpur College, e la Scuola di Antropologia dell’Università dell’Arizona. Secondo Di Napoli, l’acqua piovana dell’Isola di Pasqua affonda direttamente attraverso il substrato roccioso in una falda acquifera sotterranea, un corpo di roccia porosa o sedimento in cui si concentra l’acqua. Questa poi emerge lungo la costa sotto forma di “infiltrazioni costiere”, sacche di acqua dolce che gocciolano nell’oceano. 

Gli abitanti di Rapa Nui usavano anche fonti d'acqua interne come i laghi e i crateri. A Ava RangaUka e a Toroke Hau costruirono un bacino rivestito di pietra grande migliaia di metri quadri, probabilmente utilizzato per intrappolare il deflusso superficiale e il trabocco da Rano Aroi. Un'impresa tecnologica imponete, ma a destare la curiosità degli scienziati sono state alcune delle località prossime alla battigia, dove è stata rilevata una quantità inspiegabile di acqua "dolce" e fresca che esce dalle infiltrazioni. Come è possibile? Sorgenti nascoste che, come abbiamo detto all'inizio, sono state identificate in tutta l’isola, nonostante le condizioni asciutte dei laghi vulcanici. 

LO SAPEVI CHE - Lo stesso schema di associazione tra rituali, caratteristiche domestiche e sorgenti di acqua dolce si verifica a Te Ipu Pu e Te Peu, dove le immagini aeree mostrano un grande edificio (hare paenga) e giardini recintati (manavai). 

Da dove proviene allora quell'acqua dolce? Indagando, gli studiosi hanno scoperto che rimaneva nelle falde acquifere sotterranee per lunghi periodi di tempo prima di filtrare nell’oceano, grazie a strutture artificiali costruite anticamente. Da chi? Forse erano lì prima. I ricercatori pensano, comunque, che le statue siano legate a tali punti nevralgici per la sopravvivenza del popolo che le ha erette e che fossero anche dei marcatori che indicavano dove si trovava tale elemento, non solo indispensabile per la vita, ma legato ad antichi culti rituali. Un nuovo mistero ancora tutto da risolvere…


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022

Uno studio internazionale della Valle del Sado, in Portogallo, suggerisce che i popoli mesolitici europei potrebbero aver eseguito trattamenti come l’essiccazione attraverso la mummificazione già 8.000 anni fa...

Uno studio internazionale della Valle del Sado, in Portogallo, suggerisce che i popoli mesolitici europei potrebbero aver eseguito trattamenti come l’essiccazione attraverso la mummificazione già 8.000 anni fa…


a cura della redazione, 3 marzo

Fino ad ora, i casi più antichi di mummificazione intenzionale erano noti dai cacciatori-raccoglitori Chinchorro che vivevano nella regione costiera del deserto di Atacama nel nord del Cile circa 7.000 anni fa, tuttavia, la maggior parte delle mummie sopravvissute in tutto il mondo sono più recenti, databili tra pochi cento anni e fino a 4000 anni fa. Fotografie scoperte di recente dagli scavi degli anni ‘60 nella Valle del Sado hanno permesso agli archeologi di ricostruire le posizioni in cui furono sepolti i corpi, fornendo un’opportunità unica per saperne di più sui rituali funerari che si svolgevano 8.000 anni fa. 

Questa scoperta è stata fatta dai ricercatori in connessione con un’analisi di tombe del Mesolitico, Mesolitico, in Portogallo. I risultati dello studio, condotto in collaborazione tra l’Università di Uppsala, l’Università di Linnaeus e l’Università di Lisbona, sono stati pubblicati sull’European Journal of Archaeology. Lo studio a combinato archeologia e archeotanatologia, un metodo utilizzato per documentare e analizzare i resti umani, raffrontando la decomposizione umana con le osservazioni della distribuzione spaziale delle ossa, con la collaborazione del Forensic Anthropology Research Facility presso la Texas State University. Gli archeologi hanno così potuto ricostruire come il cadavere sia stato maneggiato dopo la morte e come sia stato sepolto, anche se sono trascorsi diversi millenni. L’analisi ha mostrato che alcuni corpi erano sepolti in posizioni estremamente flesse con le gambe piegate all’altezza delle ginocchia e posti davanti al petto. 

L’iperflessione degli arti, l’assenza di disarticolazione in parti significative dello scheletro e un rapido riempimento di sedimenti attorno alle ossa indicano, secondo gli studiosi, un processo di mummificazione. Durante la decomposizione, infatti, le ossa di solito si disarticolano in corrispondenza delle giunture deboli, come i piedi, ma nei casi studiati sono rimaste in posizione. I ricercatori propongono che questo schema di iperflessione e mancanza di disarticolazione potrebbe essere spiegato se il corpo non fosse stato deposto nella tomba come un cadavere fresco, ma in uno stato essiccato come un cadavere mummificato. “Questi sono reperti insoliti. Le mummie più famose al mondo sono significativamente più giovani e si stima che abbiano un’età compresa tra 4.000 e un paio di centinaia di anni. Ma possiamo dimostrare che i corpi venivano intenzionalmente trattati per essere essiccati e mummificati prima della sepoltura già nel Mesolitico. Tale forma di rituale di sepoltura non è mai stata dimostrata prima nell’età della pietra dei cacciatori europei”, afferma nel comunicato stampa Rita Peyroteo Stjerna, archeologa e ricercatrice dell’Università di Uppsala, che insieme a Liv Nilsson Stutz dell'Università di Linnaeus è la prima autrice dello studio. 

L’essiccazione non solo mantiene alcune di queste articolazioni altrimenti deboli, ma consente anche una forte flessione del corpo poiché l’intervallo di movimento aumenta quando il volume dei tessuti molli è minore. Poiché i corpi sono stati essiccati prima della sepoltura, c’è pochissimo o nessun sedimento presente tra le ossa e le articolazioni sono mantenute dal continuo riempimento del terreno circostante che sostiene le ossa e impedisce il collasso delle articolazioni. I ricercatori suggeriscono che i modelli osservati potrebbero essere il prodotto di un processo di mummificazione naturale guidato. La manipolazione del corpo durante la mummificazione sarebbe avvenuta per un lungo periodo di tempo, durante il quale il corpo si sarebbe gradualmente essiccato per mantenere la sua integrità corporea e contemporaneamente si sarebbe contratto legandosi con una corda o bende per comprimerlo nella posizione desiderata. 

Al termine del processo, il corpo sarebbe stato più facile da trasportare, essendo più contratto e significativamente più leggero del cadavere fresco, assicurando che fosse sepolto mantenendo il suo aspetto e l’integrità anatomica. Se la mummificazione in Europa è più antica di quanto suggerito in precedenza, emerge una serie di intuizioni relative alle pratiche funebri delle comunità mesolitiche, inclusa una preoccupazione centrale per il mantenimento dell’integrità del corpo e la sua trasformazione fisica da cadavere a mummia curata. Queste pratiche sottolineerebbero anche il significato dei luoghi di sepoltura e l’importanza di portare i morti in questi luoghi in modo da contenere e proteggere il corpo, seguendo principi culturalmente regolati, evidenziando il significato sia del corpo che del luogo di sepoltura in Portogallo mesolitico 8.000 anni fa.


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022

L’origine del pugnale di ferro meteoritico del faraone Tut diventa sempre più enigmatica. Secondo gli scienziati la tecnologia per realizzarlo non era ancora in uso durante la XVIII dinastia egizia, ma è testimoniata da reperti di migliaia di anni prima in Anatolia…


L’origine del pugnale di ferro meteoritico di Tutankhamon diventa sempre più enigmatica. Secondo gli scienziati la tecnologia per realizzarlo non era ancora in uso durante la XVIII dinastia egizia, ma è testimoniata da reperti di migliaia di anni prima in Anatolia… 

a cura della redazione, 20 febbraio

Chi forgiò e come il pugnale di ferro trovato nella tomba di Tutankhamon? Ma soprattutto quando? Uno studio del 2016 aveva confermato l'origine meteoritica del metallo utilizzato, ma sono rimaste domande sul tipo di meteorite da cui proveniva e su come fosse stato lavorato. È qui che entra in gioco il nuovo studio, pubblicato questo mese su “Meteoritics & Planetary Science”. Un team di ricercatori giapponesi, guidati da Takafumi Matsui del Chiba Institute of Technology, ha recentemente scansionato ai raggi X il pugnale, scoprendo prove che testimoniano l’uso di tecniche che all’epoca non erano comuni in Egitto. Da dove viene dunque questo pugnale?

LO SAPEVI CHE - Il pugnale di Tutankhamon è costituito da una lama di ferro metallico a doppio taglio e da un’elsa fatta principalmente d’oro. La lama mostra una superficie metallica grossolanamente lucidata con lucentezza debole e sottili graffi. L’elsa ha cinque fasce larghe, che sono decorate con pietre come lapislazzuli, corniola e malachite. Nelle porzioni d’oro tra le fasce decorate, vengono creati motivi a forma di diamante e ondulati con grani d’oro fini di circa 0,5 millimetri. Queste pietre e grani d’oro sono legati alla superficie dell’oro. L’elsa ha un pomo di cristallo fissato alla base d’oro da diversi spilli d’oro. La guaina non ha materiali accessori. Il motivo sul fodero è inciso su lamina d’oro. 

Tutti i risultati ottenuti indicano un’origine poco chiara per la lama meteoritica scoperta tra le spoglie della tomba di re Tut (XVIII dinastia egizia - 1361–1352 a.C.). Primo elemento a infittire il mistero la sua impugnatura d’oro, che sembra essere stata realizzata con intonaco di calce, un materiale adesivo che non fu utilizzato in Egitto fino a molto tempo dopo, durante il periodo tolemaico (305–30 a.C.), ma che all’epoca era già utilizzato altrove. Secondo i ricercatori questo indica una sua origine straniera. Quindi chi lo forgiò conosceva già questa tecnica e l'esemplare depositato accanto al copro di Tutankhamon resta un unicum in tutto l'Antico Egitto. Perché?

LO SAPEVI CHE - Le macchie nere della lama sono chimicamente distinte dalle aree lisce e metalliche. Il contenuto medio di Fe e Ni delle macchie nere è leggermente inferiore a quello delle porzioni lisce e metalliche. La mappatura elementare del Ni sulla superficie della lama mostra disposizioni a bande discontinue in punti con simmetria "cubica" e larghezza di banda di circa 1 mm, suggerendo il modello Widmanstätten.

Per risolvere il puzzle, gli scienziati hanno mappato la struttura elementare della lama, rivelando concentrazioni di ferro, nichel, manganese e cobalto. Dopo aver escluso che le macchie annerite presenti sul pugnale fossero ruggine, hanno tracciato la presenza di zolfo, cloro, calcio e zinco. Hanno scoperto che si tratta di solfuro di ferro. Altrettanto interessante, quanto la composizione degli elementi presenti, è stato osservare la loro distribuzione. La lama del meteorite aveva una trama tratteggiata nota come modello Widmanstätten. Si tratta di un effetto presente in alcuni meteoriti metallici causato dal modo in cui il nichel è distribuito in essi. La presenza di tale struttura nel pugnale di Tutankhamon indica che era costituito da un’ottaedrite, una struttura intrecciata propria dei meteoriti ferrosi, che richiede però un trattamento speciale.

LO SAPEVI CHE - Le ottaedriti devono il loro nome alla struttura cristallina i cui piani sono paralleli a quelli di un ottaedro. Avendo otto facce opposte e parallele tra loro, ci sono solo 4 piani nella loro struttura intrecciata. Questi piani sono costituiti da cristalli piatti di kamacite detti lamelle. Tale cristallizzazione delle leghe metalliiche è avvenuta grazie al lentissimo periodo di raffreddamento all’interno dell’asteroide progenitore. Una volta tagliato il meteorite, i cristalli appaiono sulla superficie come bande. Le bande hanno dimensioni che possono variare da circa 0,2 millimetri a 5 centimetri e formano quella che è più comunemente detta struttura di Widmanstätten. In realtà fu G. Thomson, un geologo inglese che viveva a Napoli, a pubblicare per primo questa scoperta nel 1804. Thomson scoprì queste figure mentre stava trattando con l’acido nitrico una meteorite di Krasnojarsk allo scopo di pulirla dalla ruggine. Improvvisamente si accorse che l’acido aveva fatto emergere dal metallo intricati disegni mai visti prima. 

Assodato che l’alta qualità di tale oggetto indica una particolare abilità di lavorare il ferro meteoritico, tuttavia, il suo metodo di produzione rimane poco chiaro. Tra i numerosi processi per fabbricarlo viene esclusa la lavorazione a freddo. Il meteorite non è stato tagliato e lucidato. Anche la lavorazione a caldo, con fusione ad alta temperatura e successiva colata non è possibile. Resta solo l'ipotesi del riscaldamento a bassa temperatura e successiva forgiatura. La struttura ottaedrica rilevata nel ferro dell’antico pugnale egizio, infatti, sarebbe scomparsa se fosse stato riscaldato a una temperatura molto elevata. Una teoria confermata dalla presenza di depositi di troilite. 

Ora, il più antico pugnale di ferro meteoritico, noto sino ad oggi, è stato trovato a Alacuhöyük, nell'odierna Turchia. Questo pugnale risale alla prima età del bronzo, circa 2300 a.C., e fu ritrovato in un contesto funerario. Tale scoperta suggerisce che la tecnologia per lavorare il ferro meteoritico per creare oggetti complessi abbia almeno 4300 anni e che già allora, se non prima, era conosciuta in Anatolia, dove in seguito è stata sviluppata la fusione del ferro. Il pugnale di Alacuhöyük, però, è fortemente corroso, rendendo difficile lo studio di come sia stato fabbricato. La lama del pugnale di Tutankhamon, al contrario, è ben conservata e ha offerto finalmente l’opportunità agli scienziati di certificare l’esistenza di tale tecnica di lavorazione, ma in un luogo, l'Egitto dove non era praticata, o per lo meno non se ne ha traccia, salvo nel caso del pugnale del giovane faraone.

SCOPRI IL MONDO DI FENIX - Il Mensile sui Misteri della Storia e del Sacro - a destra FOTO ©British Museum 

   
 Le relazioni con l'Anatolia e i faraoni della XVIII Dinastia, 
con particolare attenzione ad Akhenaton e Tutankhamon sono dovute a una conoscenza 
da parte dei faraoni di quel periodo di una antica relazione con la remota regione turca.
 È stato dimostrato dalla ricerca genetica, difatti, che le mummie egizie nobiliari dai capelli rossi erano individui i cui antenati provenivano dall'Anatolia 
in una migrazione avvenuta millenni prima. 
Un dato che probabilmente i sacerdoti di Eliopoli conoscevano, 
 di cui i faraoni della XVIII Dinastia vennero a conoscenza 
e che spiegherebbe molti enigmi associati ad Akhenaton e Tuthankhamon
Il direttore di FENIX, Adriano Forgione, ne ha parlato su FENIX n.107 (settembre 2017). 
Le analisi sul ferro meteorico del pugnale di Tuthankamon sono invece pubblicate su FENIX n.93 mentre l'analisi del DNA delle mummie egizie dai Capelli rossi è su FENIX n.117 e n.120.


Sebbene l’analisi chimica non offra indizi precisi, lo studio comparato di una serie di tavolette di argilla di 3.400 anni fa, note come Lettere di Amarna, che documenta attività diplomatiche nell’Antico Egitto a metà del XIV secolo a.C., sembra essere la pista giusta da seguire per comprendere cosa accadde. Le tavolette sono incise in accadico e furono scoperte lungo il fiume Nilo. Menzionano un pugnale di ferro in una guaina d’oro, presumibilmente non un accessorio comune all’epoca, che fu donato al nonno di Tutankhamon, Amenhotep III (1417–1379 a.C.), da Tusratta, re di Mitanni, quando il faraone sposò sua figlia, la principessa Taduhepa. È possibile quindi che il pugnale provenga dal sud-est dell’Anatolia, e che re Tut lo abbia ereditato poiché è stato tramandato attraverso la sua famiglia. Resta un mistero quando e da chi fu fabbricato...


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022

Un’enorme formazione artificiale simmetrica, indica la presenza di una misteriosa civiltà dotata di sofisticate capacità ingegneristiche di adattamento al clima, almeno 3.600 anni fa, nella penisola arabica orientale…


a cura della redazione, 4 febbraio

Gli studiosi alla ricerca di fonti d’acqua sotterranee, per un progetto finanziato dall’Agenzia degli Stati Uniti per gli aiuti e lo sviluppo internazionale, hanno scoperto per caso i contorni di un insediamento artificiale, con una forma, una consistenza e una composizione del suolo in netto contrasto con le caratteristiche geologiche circostanti. La datazione dei campioni di carbone recuperati suggerisce che abbia almeno 3.650 anni. L’area paesaggistica, perfettamente simmetrica e direzionata, misura due chilometri per tre ed evidenzia tracce di contorni di "un’installazione umana".

Parliamo di una delle più grandi potenziali “città” scoperte nell’area e per di più sotterranea! È stata identificata utilizzando immagini satellitari avanzate in una zona desertica del Qatar, dove in precedenza si pensava che ci fossero poche prove di civiltà stanziali antiche. Il nuovo studio, pubblicato a fine gennaio 2022, sull’ISPRS Journal of Photogrammetry and Remote Sensing (PDF), contrasta con la narrativa secondo cui questa penisola era popolata solo da nomadi, e le prove mappate dallo spazio indicano che la civiltà che la edificò aveva una comprensione sofisticata di come utilizzare le acque sotterranee. La ricerca sottolinea, anche, un’abilità ingegneristica fuori contesto temporale, probabilmente dovuta alla necessità "critica", di chi viveva in quella “metropoli sotterranea”, di studiare l’acqua e salvaguardarla dalle fluttuazioni climatiche nelle zone aride.   

Utilizzando i normali strumenti di imaging satellitare, e attraverso l’osservazione della superficie terrestre, l’insediamento non era visibile dallo spazio. “Makhfia”, il nome attribuito dai ricercatori della University of Southern California Viterbi School of Engineering e del Jet Propulsion Laboratory della NASA - che si riferisce a un luogo invisibile nella lingua araba locale - è stato scoperto utilizzando apparecchiature molto sofisticate, che abbiamo solo oggi. Le immagini che ne hanno permesso il rilevamento sono state scattate grazie a un particolare radar ad apertura sintetica in banda L . 

Sebbene non sia possibile vedere a occhio nudo i resti dei monumenti o le mura dell'insediamento, le prove sono state rintracciate nel suolo circostante. Il sito ha una struttura e una composizione della superficie diverse rispetto al resto del terreno, una disparità tipicamente associata ad attività di semina. Secondo gli esperti, un insediamento di queste dimensioni in questa particolare area, che è lontana dalla costa dove si trovavano la maggior parte delle civiltà antiche, è insolito. Qui, oggi abbiamo una media di circa 110 gradi Fahrenheit nei mesi estivi. È come trovare prove di un ranch verdeggiante nel mezzo della Death Valley, in California, che risale a migliaia di anni fa. 

L’autore principale della ricerca, Essam Heggy, dell’USC Arid Climate and Water Research Center, descrive il sito come simile a una “fortezza circondata da un terreno molto accidentato”, rendendo l’area quasi inaccessibile. Questa scoperta ha importanti implicazioni storiche e scientifiche. Potrebbe essere la prima prova della presenza di una comunità sedentaria sconosciuta nell’area e forse la prova di conoscenze d’ingegneria avanzata anacronistiche per quel periodo di tempo. 

Alla sensazionale scoperta si aggiunge il mistero di chi fosse questa cultura e perché sia scomparsa. Soprattutto, gli studiosi ritengono che tale "mega insediamento" sia stato utilizzato per un lungo periodo, in funzione della dipendenza dalle acque sotterranee per sopravvivere. Un fatto che testimonia un’abilità tecnologica incredibile, date le complesse falde acquifere e il terreno aspro del Qatar. 

Ci sono prove evidenti che gli abitanti di questo insediamento praticassero l’assorbimento profondo delle acque sotterranee, accedendo alla preziosa risorsa per il loro sostentamento attraverso fratture nel terreno, al fine di utilizzare l'acqua per l’irrigazione delle colture e per le esigenze di vita quotidiana. Gli studiosi ritengono che una popolazione con conoscenze sufficienti per sfruttare tali risorse idriche sotto terra, imprevedibili e inaccessibili, scavando attraverso il calcare duro e la dolomite, sarebbe stata sicuramente in anticipo sui tempi nel mitigare la siccità all’interno di ambienti difficili. Ma soprattutto, con quali strumenti lo avrebbe fatto?

Perché la gente dovrebbe preoccuparsi delle rovine di questo antico insediamento? Perché secondo i ricercatori la capacità di questa cultura di mitigare le fluttuazioni climatiche potrebbe essere la nostra storia. Molti pensano che il cambiamento climatico sia qualcosa che ci attende nel futuro - prossimo - o che sia semplicemente avvenuto molto tempo fa, nel passato “geologico” della Terra. Questo sito, però, mostra che i nostri recenti antenati hanno fatto della sua mitigazione una chiave per la loro sopravvivenza. Come e perché resta un mistero da risolvere...


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022

La prima forma standardizzata di produzione di gioielli conosciuta dall'archeologia risale a 50.000 anni fa....


The Guardian,  20 gennaio 

Gli scienziati hanno scoperto una rete di connessioni fiorita 50.000 anni fa, estesa per migliaia di chilometri in tutta l’Africa. Il più antico “social network” del mondo. Non nell’accezione moderna del termine ovviamente. A differenza dell’equivalente digitale, questa rete di legami sociali si basava sulla condivisione e sul commercio di perline fatte di gusci d’uovo di struzzo, una delle più antiche forme di ornamento personale dell’umanità. Potremmo definirla la prima tecnica standardizzata per la produzione di gioielli conosciuta dall’archeologia.

Un recente studio, pubblicato su Nature il 20 dicembre scorso, ha confrontato le perle trovate in 31 siti nell’Africa meridionale e orientale, che si estendono per oltre 1.800 miglia. La ricerca ha coinvolto lo studio di oltre 1.500 di queste perle. Confrontando il diametro esterno e lo spessore delle pareti del guscio, oltre al diametro dei fori al loro interno, gli scienziati hanno appreso che circa 50.000 anni fa le persone nell'Africa orientale e meridionale iniziarono a produrre perline di struzzo quasi identiche. Eppure questi gruppi e comunità erano separati da grandi distanze, il che suggerisce l’esistenza di una rete sociale a lunga distanza che si estendeva per migliaia di miglia, collegando persone in regioni lontane. 

Invece di fare affidamento sulla dimensione o sulla forma naturale di un oggetto, gli esseri umani hanno iniziato a modellare direttamente i gusci e a creare opportunità per lo sviluppo di variazioni di stile. I modelli risultanti hanno fornito ai ricercatori un percorso attraverso il quale poter tracciare connessioni culturali, anche se non è chiaro se le perle di guscio d'uovo di struzzo fossero state scambiate tra gruppi o se fosse stata scambiata la conoscenza su come fabbricarle. La maggior parte delle prove punta a quest'ultima ipotesi.

Eppure questi gruppi e comunità erano separati da grandi distanze, il che suggerisce l’esistenza di una rete di connessione sociale a lunga distanza che si estendeva per migliaia di miglia, collegando persone in regioni lontane. “Le perline sono indizi, sparsi nel tempo e nello spazio, che aspettano solo di essere notati. È come seguire una scia di briciole di pane”, ha affermato l'autrice principale dello studio, Jennifer Miller, del Max Planck Institute for the Science of Human History di Jena, in Germania. 

Le perle di guscio d'uovo di struzzo sono alcune delle più antiche forme di auto-decorazione trovate nella documentazione archeologica. Gli scienziati ritengono che uomini e donne abbiano iniziato a indossarle 75.000 anni fa. Tuttavia, l’industria dell’ornamento decollò solo 25.000 anni dopo in Africa. 

Improvvisamente, però, circa 33.000 anni fa il modello industriale è cambiato bruscamente. Pur continuando nell’Africa orientale, sono praticamente scomparse dall’Africa meridionale e non sono riemerse lì fino a 19.000 anni fa.


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022