Gli archeologi hanno iniziato un nuovo scavo nella tomba a camera neolitica legata al leggendario Re e al mito del Santo Graal...


a cura della redazione 1 luglio

Gli archeologi dell'Università di Manchester hanno iniziato uno scavo in un sepolcro di 5.000 anni fa, sperando di rispondere ad alcuni dei misteri che circondano l'enigmatico sito. Si tratta di una tomba a camera neolitica, situata su una collina che domina sia la Golden Valley che la Wye Valley nell'Herefordshire, in Inghilterra. Non è mai stata scavata in precedenza, ma l’English Heritage afferma che esempi simili nella stessa regione sono stati trovati per contenere resti scheletrici incompleti di diverse persone, insieme a scaglie di selce, punte di freccia e ceramiche. 

Come molti monumenti preistorici nell'Inghilterra occidentale e nel Galles, questa tomba è stata collegata a Re Artù sin da prima del XIII secolo. Secondo la leggenda, fu qui che Artù uccise un gigante che lasciò l'impronta dei suoi gomiti su una delle pietre mentre cadeva. Altre leggende suggeriscono che la tomba sia un indicatore di una delle grandi battaglie di Artù, o che le impronte siano state lasciate dallo lui stesso quando si inginocchiò lì per pregare. Sembra sia la stessa pietra che ha ispirato CS Lewis quando ha creato il suo mondo immaginario di Narnia, ponendo la “Pietra di Artù”, come altare su cui viene sacrificato il leone Aslan in “Il leone, La strega e L'armadio”.

Oggi rimangono solo le pietre più grandi della camera interna, poste in un tumulo la cui dimensione e forma originali rimangono un mistero. La camera è formata da nove pietre verticali, con un'enorme pietra di copertura che si stima pesi più di 25 tonnellate in cima. Vi si accedeva dal lato del tumulo di copertura, tramite il passaggio ad angolo retto. C'è una pietra isolata che probabilmente faceva parte di un falso ingresso, forse fornendo un focus visivo per le cerimonie.

Il sito risale al periodo compreso tra il 3.700 a.C. e il 2.700 a.C. durante il periodo neolitico. È improbabile che il monumento sia stato costruito esclusivamente come tomba. Qui potrebbero essersi svolti rituali degli antenati, attraverso i quali si potevano mettere in gioco pretese su una particolare area di terra. Costruiti in una zona di alpeggi, i popoli neolitici avrebbero potuto radunarsi al tumulo stagionalmente.

GUARDA I NOSTRI VIDEO - Adriano Forgione, direttore della rivista mensile FENIX, ci racconta dalla rocca di Tintagel, nel Sud dell'Inghilterra, la leggenda del concepimento di Artù, figlio di Uther Pendragon, Re Sacro, spiegando il significato metaforico di queste emblematiche figure, in un'approfondita analisi comparata delle tradizioni di tutti i tempi, tra storia, favole e miti, volgendo lo sguardo verso un unico comune denominatore: la vittoria della Luce sulle tenebre, il concepimento del Re del Mondo, Re di Pace e di Giustizia, Sacerdote di Sè stesso. 

Nell'ambito di un progetto congiunto tra English Heritage e l'Università di Manchester, gli archeologi stanno rimuovendo per la prima volta il tappeto erboso per rendere visibile la stratigrafia sottostante e registrare eventuali resti archeologici. Il nuovo scavo segue una ricerca intrapresa dalle Università di Manchester e Cardiff immediatamente a sud del monumento lo scorso anno che ha già cambiato il modo di pensare sull'orientamento e le origini del sito. Si presumeva che la Pietra di Arthur si trovasse all'interno di un tumulo di pietra a forma di cuneo, simile a quelli trovati nelle Cotswolds e nel Galles del Sud, ma il professor Julian Thomas di Manchester e il professor Keith Ray di Cardiff hanno scoperto che il monumento originariamente si estendeva in un campo a sud-ovest, e potrebbe aver avuto la forma di un basso tumulo di erba con estremità arrotondate. 

I professori Thomas e il professor Ray guideranno anche i prossimi scavi, con la partecipazione di studenti dell'Università di Cardiff e di una serie di istituzioni americane. Ciò fornirà nuove informazioni sui costruttori di tombe e consentirà al team di comprendere ulteriormente le dimensioni e la forma originali della Pietra di Artù.


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022


La scoperta mostra che i Maya organizzavano il tempo in modo rituale molto prima di quanto si credesse in precedenza. Tra le illustrazioni dei loro dei e l'origine del mondo, gli archeologi hanno trovato uno dei primi esempi della scrittura di questa civiltà precolombiana...


a cura della redazione, 13 aprile

Gli archeologi hanno trovato il primo esempio di annotazione del calendario Maya su due frammenti di murales, rinvenuti nelle profondità della piramide guatemalteca di San Bartolo, nella giungla di El Petén, tra migliaia di resti di antiche pareti. Una scoperta che dimostra come i Maya organizzassero il tempo in modo rituale molto prima di quanto si pensasse. Su un frammento sono disegnati un punto e una linea orizzontale, mentre tra la sua parte inferiore e il secondo segmento di gesso è ben visibile la testa di un cervo. 

LO SAPEVI CHE - La data dei “7 cervi” era seguita, nel Tzolk'in, da “8 stelle”, “9 giada/acqua”, “10 cani”, “11 scimmie”... Durante il periodo classico, gli scribi Maya usavano solo raramente la testa di cervo come glifo per il settimo giorno. Invece, era molto più comune usare un segno della mano, che mostrava il tocco del pollice e dell'indice. Ciò può essere spiegato dall'uso stabilito del segno della mano in altre impostazioni come il segno fonetico "chi", che indica in Ch'olan il "chij", derivato dal proto-Maya "kehj". Ciò riflette lo status del Ch'olan come lingua e scrittura di prestigio, usata anche tra le comunità nelle pianure Maya. Sino ad ora il primo uso attestato come "il giorno Cervo" era stato registrarto nel primo periodo classico (dal 200 al 500 d.C.). L'uso della testa di cervo a San Bartolo datato tra il 300 e il 200 a.C. circa, invece, potrebbe rappresentare una fase iniziale dello sviluppo della scrittura Maya, prima che la mano del "chi" puramente fonetico emergesse come forma Ch'olan standard del segno.

Segni che alludono, secondo i ricercatori, allo Tzolk'in, il calendario sacro composto da 260 giorni, rappresentati da glifi e numerati da uno a 13 in modo ciclico, che ricordano la durata della gestazione umana. In particolare si tratterebbe di un chiaro riferimento al giorno dei "7 cervi": il popolo Maya, infatti, scriveva il numero sette con due punti in cima a una linea. Secondo gli studiosi manca, però, il pezzo che riporta il secondo punto, ma contano di trovarlo tra i 249 frammenti che hanno sino ad ora attribuito all'antico calendario. I dettagli di questi risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Science Advances.

Scoperto nel 2001, da un gruppo di studiosi, guidato da William Saturno, il luogo si distingue per la sua piramide a gradoni, cui sono state attribuite sette fasi costruttive, poste l'una sull'altra. Durante ogni nuova fase le mura coprivano completamente quelle precedenti, includendole all'interno delle fondamenta. 

Gli scavi archeologici nel sito Maya hanno rivelato una serie di importanti dipinti murali risalenti al periodo tardo preclassico (dal 400 a.C. al 200 d.C.). Questi provenivano da un unico complesso architettonico, chiamato Las Pinturas per i colori vivaci utilizzati negli affreschi. Il luogo era associato alle osservazioni astronomiche Maya e alla scienza del calendario, cui afferiscono diverse strutture ausiliarie che definivano l'intero complesso rituale, comprensivo di una piattaforma allungata denominata Ixbalamque

Gli archeologi hanno scoperto più di 7.000 pezzi di gesso e resti delle pareti distrutte. I frammenti che riportano il giorno dei "7 cervi" sono stati attribuiti tra la III e la IV fase costruttiva, quando la piramide centrale era più piccola. Per ampliarla i suoi muri furono abbattuti. Ciò che ha destato maggiormente l'attenzione degli studiosi è il rispetto con cui i Maya trattarono i detriti depositandoli con precisione all'interno della camera ampliata come una sorta di sepoltura simbolica delle immagini e dei testi su di esse custoditi. La cura con cui i Maya smantellarono il murales, come ne hanno rimosso l'intonaco, come lo hanno posto all'interno della camera suggerisce l'esistenza di una regola costruttiva: realizzando la nuova struttura, seppellirono quella vecchia come se la considerassero qualcosa di sacro, là dove nelle immagini dipinte, impregnate di ritualità, era stata impressa la Vita.

Le indagini sulle fondamenta architettoniche di questo complesso rituale hanno rivelato dipinti anche precedenti e un frammento che conteneva importanti prove della prima scrittura geroglifica Maya. I famosi murales policromi di San Bartolo raffigurano divinità e umani in scene di carattere mitologico che ci danno uno spaccato della loro cultura e religione. Sembra furono dipinti all'interno di un tempio, durante la penultima fase del complesso. Con l'aiuto di sofisticate tecnologie di imaging e delle conoscenze accumulate su tale civiltà, i ricercatori sono riusciti a ricomporre scene che mostrano l'origine del mondo secondo l'antico popolo scomparso, del loro dio del mais o del dio del Sole che sorge sulla montagna.

Gli archeologi hanno anche trovato glifi che forniscono nuovi indizi sugli aspetti chiave di questa antica cultura. Uno è il primo riferimento scritto abbinato a una figura su un trono in dipinti che precedono di 100 anni la monarchia di Tikal, Ceibal o Palenque. Datato tra il 300 e il 200 a.C. circa, è considerato uno dei primi esempi di scrittura precolombiana del Mesoamerica, testimoniando che già allora esistevano una complessa organizzazione sociale e una gerarchia del potere. Precedenti scoperte di iscrizioni geroglifiche al San Bartolo hanno dimostrato che i sistemi di scrittura si erano sviluppati nell'area delle pianure Maya centrali molto prima di quanto si pensasse in precedenza. I primi esempi di scrittura geroglifica Maya, trovati a Oaxaca, in Messico, risalgono al 400 a.C. circa, quelli di San Bartolo risalgono al 300 a.C. circa, un indicatore significativo di espansione in un breve lasso di tempo, considerando che San Bartolo si trova più di 800 chilometri a sud-est di Oaxaca.


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022

Scoperto nel villaggio di Çitli il primo esempio d gioiello da polso con raffigurazioni figurali dell'antico popolo indoeuropeo, realizzato 3.300 anni fa...


a cura della redazione, 27 marzo

Nel 2011 un uomo fece un’insolita scoperta archeologica, mentre arava la sua fattoria nel villaggio di Çitli, nella Turchia centro-settentrionale. Nonostante le pesanti macchine agricole lo avessero frantumato in tanti pezzi, si rese conto che aveva tra le mani un oggetto molto antico. Ne raccolse tutte le parti e le portò al Museo di Çorum. Gli esperti lo hanno identificato come un raro braccialetto del XIII secolo a.C.. Il luogo esatto del ritrovamento è rimasto sconosciuto, poiché il contadino aveva arato cinque campi quel giorno, e nonostante successive indagini archeologiche non sono stati rinvenuti in quei luoghi altri manufatti. Dopo un ampio restauro, gli esperti hanno scoperto dalle raffigurazioni figurali presenti sul bracciale che appartiene all’antica civiltà ittita, l’unico ritrovato sino ad ora, costituito da una lunetta ellittica di metalli preziosi, una forma in precedenza presente solo nei sigilli ad anello di questo popolo. Il misterioso manufatto è finalmente stato esposto al pubblico, per la prima volta, al Museo Archeologico di Çorum, come riporta il Daily Sabah

LO SAPEVI CHE - Le divinità ittite erano molte: la storia lo tramanda come il popolo dei mille dei. Essi facevano propri tutti quelli venerati dai popoli che conquistavano, in quanto credevano che questo conferisse loro più potere. Inoltre gli ittiti fecero proprie le diverse divinità anatoliche, chiamandole con il nome hattico. Nel Pànteon ittita la dea Ishtar era identificata con Shaushka, raffigurata con le ali, in piedi su un leone; aveva due seguaci, Ninatta e Kulitta. Fu venerata nel Regione del Toro, soprattutto a Samuha. Il re ittita Hattusilis III la prese come sua dea protettrice. Tale divinità, cui venvano attributi al contempo attribti di compassione e giustizia, aveva anche attributi maschili: poteva punire i bestemmiatori e gli autori di spergiuro con la riassegnazione di genere. Nei testi ittiti, si trova spesso accompagnata da  Sintal-wuri, Sintal-irti e Sintal-taturkani, i cui nomi hurriti si riferiscono tutti al numero sette. È nella processione degli dei Yazilikaya, santuario di Hattusa, la capitale dell'impero ittita tra il 1700 a.C. e il 1200 a.C. (si trova a 70 miglia a sud-ovest del sito di ritrovamento), la dea è raffigurata con le sue due ancelle.

L’antico oggetto, di cui manca una sezione al centro, è realizzato in una lega di rame, stagno e arsenico e misura circa 7 centimetri di diametro nel punto più largo. È formato da una fascia modellata a forma ellittica con le punte piegate all’indietro e forgiate insieme a formare un anello. Una piastra montata sull’ellisse è ornata da una scena di figure in rilievo eseguita con la tecnica dello sbalzo, incorniciata da un bordo di semicerchi e linee. 

LO SAPEVI CHE Gli Ittiti erano un antico popolo indoeuropeo che abitava la parte centrale dell’Asia Minore nel II millennio a.C. e il più noto degli antichi popoli anatolici. Il primo riferimento si trova nell’Antico Testamento, dove vengono menzionati come Chittim o Hitti, da cui ebbe origine in greco chetaios (o chettaios) che in latino diventò hetaeus o hettaeus. Il termine venne ripreso in mano da Lutero che lo tradusse come Hethiter in tedesco, passato poi in italiano come Ittita.

Al centro del rilievo a sbalzo è posta una figura stante, cui segue una processione di libagioni che si muove verso l’interno da entrambe le estremità dell’ellissi. Su i due lati della fascia, sia a sinistra sia a destra, è inciso una sorta di altare con gambe ricurve, che terminano con una zampa di animale. 

LO SAPEVI CHE - Agli dei veniva offerto da mangiare, anche per mezzo di sacrifici animali. Questo è testimoniato dalla presenza di magazzini attorno ai templi. Solo dopo che le divinità avevano mangiato, il popolo ed i sacerdoti potevano prendere parte al banchetto. Ishtar era la divinità femminile più importante nella civiltà assiro-babilonese. Era dea dell’amore e della guerra, sorella gemella del Sole (Samash) e figlia della Luna (Sin), e nel culto astrale si identificava con Venere. I sumeri la assimilarono con la loro Inanna, dea della madre terra e della fecondità, e il culto di Ishtar si diffuse poi anche fuori dalla Mesopotamia ai popoli vicini: in tutta l’Asia occidentale Ishtar divenne la personificazione della fertilità e della maternità. Fu venerata da semiti, ittiti, hurriti, fenici, siriani; penetrò anche nel mondo greco-romano col nome di Astarte. Fu protagonista di numerosi poemi epico-mitologici, fra cui quello della sua discesa agli Inferi e quello dell’epopea del semidio Gilgamesh.

I due “altari” sono drappeggiati con un telo che sembra coprire le offerte. Sul lato sinistro di ciascuno di essi sono posizionate due figure femminili (di una rimane solo la parte posteriore della testa) che si snodano verso destra, con il braccio sinistro che porta qualcosa, mentre il destro è visibilmente piegato verso l’alto. Di fronte a loro c’è un’altra figura con tratti più definiti. Le sue gambe sono di profilo e rivolte verso destra, mentre il busto è posizionato frontalmente. Indossa un indumento in due pezzi con una sorta di gonna, un mantello. Sulla sua spalla destra si intravede un’ala. Tutti questi particolari sono stati sufficienti per identificare la figura centrale come la dea Ishtar. Per gli archeologi, invece, le due figure femminili di fronte alla dea sono Ninatta e Kulitta. Una scena simile era stata trovata in precedenza su alcuni sigilli ittiti e rilievi rupestri.


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022

Fino a un quarto di tutte le impronte sulle pareti di antiche caverne in Spagna furono realizzate da piccoli umani, anche neonati...

I ricercatori hanno scoperto quella che è forse l'opera d'arte più antica del mondo, riproducendone una scansione tridimensionale, su un promontorio roccioso a Quesang sull'altopiano tibetano


a cura della redazione, 25 marzo

Negli ultimi decenni, è stato identificato un numero crescente di impronte di mani umane sulle pareti delle caverne, tale da entrare in competizione con altre forme di arte rupestre: 750 rappresentazioni distribuite in Francia, Regno Unito, Spagna e Italia, che costituiscono un corpus nutrito di indizi su usi e costumi del Paleolitico. Un recente articolo pubblicato sul Journal of Archaeological Science da Verónica Fernández-Navarro e Diego Garate, dell'Università della Cantabria, insieme a Edgard Camarós, dell'Università di Cambridge, ha iniziato ad analizzare alcune di quelle impronte da una nuova e intrigate prospettiva. Nella loro ricerca, gli studiosi hanno preso a campione cinque grotte in Spagna (Fuente del Salín, Castillo, La Garma, Maltravieso e Fuente del Trucho), scoprendo che la maggior parte delle impronte di mano "umana" riprodotta su quelle pareti di pietra furono realizzate soffiando polvere di pigmento attraverso un osso cavo o una canna su mani talmente piccole ce avrebbero potuto essere solo di bambini, anche piccolissimi, oppure di nani. Il che cambia la prospettiva di chi realizzò i disegni, e l'arte rupestre preistorica in generale, registrati in tutto il mondo. Sino ad oggi, gli scienziati erano generalmente d'accordo sul fatto che fossero stati realizzati da uomini adulti, o appena adolescenti, appartenenti a un gruppo elitario a scopo iniziatico. In questo nuovo studio, i ricercatori hanno trovato prove che suggeriscono che fino a un quarto di tutte le impronte presenti sulle pareti delle caverne furono realizzate usando mani dalle dimensioni talmente piccole, e alcune sono state attribuite a bambini anche di pochi mesi. Perché tanta prevalenza di bambini? Quale poteva essere il loro ruolo in seno al contesto rituale cui sono stati collegati tali stampi? 

Attualmente, nell'arte paleolitica europea sono note 56 grotte con motivi a mano umana. Questi contengono un totale di 769 mani, di cui il 90% sono immagini negative o stencil, il 9% sono immagini o impronte positive e l'1% sono rappresentazioni miste. Le grotte con questi motivi sono concentrate in due aree principali, la Spagna settentrionale e la Francia meridionale. Per la precisione, 30 delle grotte si trovano in Francia, 23 in Spagna, 1 a Gibilterra e 2 in Italia.

Storicamente, i primi tentativi di avvicinamento alla presenza dei bambini nelle popolazioni paleolitiche sono stati considerati attraverso gli studi antropologici di resti ossei nei contesti mortuari di siti come: Lagar Velho in Portogallo, Sungir in Russia, Dolní Věstonice in Moravia, Kostenki in Russia, Krems in Austria, Abri Pataud e La Madeleine nella Dordogna francese, e la Grotta des Enfants in Italia, nonché ritrovamenti di resti di bambini umani. Anche gli studi etnologici hanno avuto un ruolo importante per sintonizzarsi con le interconnessioni e le sovrapposizioni tra il mondo degli adulti e quello dei bambini tra cacciatori-raccoglitori e altre società “tradizionali” e il possibile ruolo di questi bambini all'interno delle loro comunità. Studi recenti hanno gradualmente introdotto la considerazione dei bambini come generatori della documentazione archeologica. Nel caso del Paleolitico si sono concentrati sulla ricerca di prove dell'apprendimento nella riduzione litica; l'interpretazione di alcuni oggetti come giocattoli; e la trasmissione della conoscenza delle attività artistiche, come l'incisione e arte parietale.

L'opera d'arte più antica è una sequenza di mani e impronte scoperte sull'altopiano tibetano. Le stampe risalgono alla metà del Pleistocene, tra 169.000 e 226.000 anni fa, da tre a quattro volte più antiche delle famose pitture rupestri in Indonesia, Francia e Spagna che risalgono a un periodo compreso tra i 45.000 e i 30.000 anni fa. Una scoperta del 2018, annunciata a settembre 2021, e che ha lasciato aperte le. più diverse interpretazioni del valore simbolico attribuito alle impronte delle mani, lasciati dagli ominidi centinaia di migliaia di ani prima, e non a caso si trattava, anche allora, di di impronte individui moto giovani. Bambini di Homo sapiens?

I ricercatori hanno notato che, invece di appoggiare le mani sul muro, la maggior parte delle stampe era stata eseguita tenendo la mano a una leggera distanza dalla parete, generando una sorta di stencil con un aspetto leggermente 3D. Nel replicare la tecnica, gli studiosi hanno scoperto che lo stampo risultava essere leggermente più grande della "mano matrice" utilizzata per crearlo. Hanno quindi studiato da vicino centinaia di impronte cercando di riprodurle con la stessa procedura utilizzata anticamente. Misurazioni accurate hanno indicato che molte delle mani appartenevano a bambini, compresi neonati e bambini d pochi anni, o comunque a individui molto minuti. L'abbondante ed omogenea partecipazione dei bambini dai quattro anni di età e almeno fino ai nove anni, suggerisce che individui di tutte le età prendessero parte all'attività grafica e che la creazione di arte rupestre potrebbe quindi essere stata un'azione collettiva delle società preistoriche.


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022

Gli archeologi scoprono, in una tomba consacrata al Dio dagli Occhi Chiusi, gli strumenti di un chirurgo della cultura Sicán...


a cura della redazione, 22 marzo

Un fascio funerario scoperto in una tomba del periodo del Medio Sicán (900-1050 d.C.) nel sito archeologico di Huaca Las Ventanas nella regione di Lambayeque in Perù include una serie di strumenti che indicano che il defunto era un chirurgo: una cinquantina di coltelli di diversi tipi, aghi di varie dimensioni con i rispettivi fili e residui di corteccia utilizzata per infusi e analgesici. Questa è la prima scoperta del genere mai fatta a Lambayeque o nel nord del Perù. Il fascio funerario è stato portato alla luce dagli archeologi del Museo Nazionale di Sicán in uno scavo nella necropoli meridionale di Huaca Las Ventanas. È stato rimosso insieme al terreno e al contesto sabbioso per proteggerlo dall'erosione e dalle inondazioni dell'adiacente fiume La Leche. Il materiale recuperato era stato trasportato al museo. Solo un decennio dopo, però, una sovvenzione del National Geographic Donation Fund concessa al museo nel 2021, ha permesso di esplorare completamente la sepoltura. Lo scavo ha avuto luogo tra ottobre 2021 e gennaio di quest'anno. All'interno del fascio c'era una maschera d'oro dipinta con cinabro, un grande pettorale di bronzo, ciotole di rame dorato e un indumento simile a un poncho con lastre di rame. Sotto il poncho c'era un vaso di ceramica con un doppio beccuccio e un manico a ponte ricurvo con una piccola figura all'apice che rappresentava il Re Huaco. 

Il kit chirurgico contiene un set completo di punteruoli, aghi e coltelli di varie dimensioni e configurazioni.Ci sono circa 50 coltelli in totale. La maggior parte sono una lega di bronzo ad alto contenuto di arsenico. Alcuni hanno manici in legno. C'è anche un tumi, un coltello cerimoniale con lama a mezzaluna. Accanto al tumi c'era una planchette di metallo con un simbolo associato a strumenti chirurgici. Accanto alla planchette sono state rinvenute due ossa frontali, una adulta e una giovanile. I segni sulle ossa indicano che sono stati deliberatamente tagliati con tecniche di trapanazione. Ciò ha confermato che gli strumenti erano destinati all'uso in chirurgia. Sebbene gli strumenti siano unici per la regione, un ritrovamento simile è stato fatto a Paracas nel 1929. Gli strumenti sono tuttavia realizzati con materiali diversi. Le lame del set di Paracas sono state realizzate con ossidiana vulcanica affilata.

È la prima scoperta di questo tipo qui a Lambayeque e nel nord del Paese. Risale dall'anno 900 al 1050 dopo Cristo, di appartenenza culturale del Medio Sicán. Non stiamo solo documentando figure d'élite di culto legate alla metallurgia, ma anche specialisti e interventi chirurgici”, ha sottolineato il Direttore del Museo Nazionale Sican Carlos Elera su Andina.

Un pezzo di corteccia di un albero sconosciuto trovato nel fascio potrebbe essere stato usato per scopi medicinali, quali infusioni analgesiche o antinfiammatorie, come la corteccia di salice bianco che ancora oggi è considerata fondamentalmente un tè di aspirina.

Sarà studiato per scoprire a quale specie appartenesse, quale uso avesse allora come oggi. Ovviamente, sarà necessario anche un confronto dettagliato con gli strumenti chirurgici rinvenuti a Paracas. Ce ne sono alcuni che coincidono e altri no. Tra i reperti di Lambaye, abbiamo l'asta del Dio della Maschera con gli Occhi Chiusi, un elemento sempre presente”, che deve essere antropologicamente contestualizzato secondo lo studioso.

Poco distante, nella Huaca Santa Rosa de Pucalá, situata nell'omonimo distretto, nella regione di Lambayeque, i ricercatori hanno scoperto quattro tombe contenenti i resti di bambini e adolescenti sepolti come offerte al momento della costruzione della prima delle tre contenitori in stile Wari con una forma a "D". Questi reperti fanno parte di un possibile rituale svolto al momento dell'inizio della costruzione di questi spazi religiosi in stile wari. Nel secondo recinto a forma di “D” è stata scoperta una tomba con offerte legate ad una tradizione locale durante la Fase 3 di Santa Rosa (850 – 900 dC). La tomba conteneva una brocca con iconografia Mochica, una bottiglia nel noto stile del primo Sicán (dalla valle di La Leche) o in stile proto-Lambayeque (dalla valle di Jequetepeque), una pentola con decorazione paleteado e un coltello o tumi con una lama a forma di mezza luna.

Tali scavi hanno rivelato, per la prima volta, l'esistenza di un tempio del periodo formativo , contemporaneo alla fine della cultura Chavín, che ha caratteristiche totalmente diverse da quelle precedentemente trovate a Lambayeque. Costruito con muri fatti di fango come cassaforma, che includono mazze di argilla come prototipi di mattoni all'interno delle mura, ha una pavimentazione molto elaborata, soffitti realizzati con resti vegetali e mostra prove dell'incenerimento di oggetti. Secndo gli studiosi questo tempio fu costruito da un gruppo umano con caratteristiche locali legate alle montagne , a dimostrazione che negli anni dal 400 al 200 a. C. c'erano diverse comunità sulla costa con interazioni verso la montagna e che mostrano anche marcate differenze con i gruppi del Periodo Formativo che si trovano nella parte bassa della valle, a Collud e Ventarrón.


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022


a cura della redazione, 21 marzo

Gli archeologi li chiamano “cucchiai”. Hanno un’età compresa tra 2.200 e 2000 anni e sono stati trovati a Crosby Ravensworth nell’Eden Valley nel 1868. Secondo l’edizione del 1869 del "The Archaeological Journal", sono stati trovati da un contadino vicino a una sorgente d’acqua. C’era un piccolo tumulo vicino alla sorgente, nel quale sono stati trovati pezzi di pietra da taglio che erano stati evidentemente sottoposti all’azione del fuoco, e alcune tracce di cenere e di terra bruciata terra. La cosa strana è che tali oggetti non sono stati trovati insieme, ma a sette metri di distanza l’uno dall’altro nel terreno paludoso che circonda la sorgente e a una profondità di circa mezzo metro. Non ce ne sono molti altri simili, ne sono stati trovati solo 25 tra Gran Bretagna, Irlanda e Francia, e sempre in coppia, tutti con la stessa “decorazione” di base: uno dei due è inciso con linee che lo dividono in quattro quarti e l’altro ha un foro praticato su un lato. 

Hanno un "manico" poco profondo, simile a un’estremità abbastanza grande da poter essere afferrata tra il pollice e l’indice. Su entrambe le due impugnature è inciso un cerchio: uno è più piccolo e al suo interno sono tratteggiate due forme, simili a embrioni, unite da una linea irregolare, che ricordano lo Yin e lo Yang; l'altro, più grande, contiene un disegno più complesso, nel quale sembra essere circoscritto un triskele. Non sono ovviamente fatti per mangiare. Si è ipotizzato, però, abbiano uno scopo rituale, forse battesimale. Il British Museum, che li costudisce, suggerisce che potrebbero anche aver avuto uno scopo divinatorio, con il liquido che veniva sgocciolato dal cucchiaio con il foro sul cucchiaio diviso in quattro quarti. 

In questo caso, tra le ipotesi, gli studiosi suggeriscono che possano essere stati utilizzati acqua, birra o sangue, o comunque un liquido piuttosto viscoso, forse anche l'albume d’uovo. Nessuno dei 25 cucchiai è stato trovato, per quanto ne sappiamo vicino a insediamenti. La maggior parte proviene da paludi, fiumi e sembra siano stati sepolti deliberatamente. Alcuni sono stati trovati persino nelle tombe. D’altronde per i Celti, come per altri popoli prima di loro, la terra acquosa era una terra di mezzo, una sorta di portale per comunicare con gli inferi. E il fatto che oggi continuiamo a buttare monete in pozzi, fontane o sorgenti suggerisce che questo istinto è ancora profondamente radicato in noi.


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022


a cura della redazione, 20 marzo

Un enigmatico oggetto rituale, dell'età del bronzo, è stato scoperto in una sepoltura della cultura Tagar nella Siberia meridionale. La tomba è stata portata alla luce nel cimitero di Kazanovka nel bacino di Minusinsk nel 2020. Al suo interno era sepolto il corpo di una donna, in un kurgan diviso in due recinti da lastre verticali di arenaria. In un'apparente continuazione dei rituali funebri della cultura Karasuk, la donna era stata sepolta con pezzi di carne e le carcasse di un vitello e di una pecora. Accanto alle carcasse sono stati trovati un coltello di bronzo e un punteruolo in una custodia di pelle. La testa di un cavallo era stata posta sul coperchio della tomba, costituita da una fossa rettangolare con un bordo a gradini. Grandi pietre ricoprivano il perimetro con piccole lastre che riempivano gli spazi vuoti. Il corpo era sepolto in posizione supina, la testa girata a ovest e le braccia tese lungo il corpo. 

Era decorato in modo molto elaborato: accanto al suo bacino c'era uno specchio circolare di bronzo con tracce di un sacchetto di pelle rossa. Placche di bronzo e spille sono state trovate accanto alla spalla destra. Vicino al suo gomito destro, invece, è stato rinvenuto lo strano oggetto, la cui parte superiore era una “X” composta da tubolari filettati di bronzo e perline a cappuccio intervallate da perline di corniola. Dalla parte inferiore, anch’essa realizzata con perline tubolari di bronzo e di argillite bianca, pendeva una zanna di cinghiale. 

Al centro, gli archeologi hanno rilevato brandelli di quella che potrebbe essere stata una borsa di stoffa di seta e il frammento di costola umana. Altre sepolture nella regione hanno perline, ossa di animali, zanne di cinghiale o cervo muschiato e artigli di uccelli, rinvenute quasi sempre in associazione all'interno di sepolture femminili. Mai prima d'ora, però, in un contesto tagario così antico, gli archeologi avevano trovato qualcosa di simile. La spiegazione potrebbe venire da parallelismi etnografici con altre culture della zona. 

La cultura Tagar, che prende il nome da un'isola nel fiume Yenisei ed era la cultura archeologica dominante nel bacino di Minusinsk in Khakassia dalla tarda età del bronzo all'età del ferro, cioè dall'VIII al III secolo a.C. circa, fu preceduta dalla cultura Karasuk dell'età del bronzo e dalla cultura di Tashtyk, che esistevano parallelamente alla cultura degli Sciti in Crimea e sulle coste settentrionali del Mar Nero. In questa prospettiva, l’osso umano custodito nell'amuleto potrebbe essere assimilato a un culto sciamanico, come quello praticato dal popolo Yukaghir, lungo il bacino del fiume Kolyma nelle regioni dell'estremo nord-est della Siberia, del quale è stata documentata la tradizione di sezionare il corpo di uno sciamano in amuleti.


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022


a cura della redazione, 19 marzo

Una collana ad anello d'oro, unica nel suo genere, è stata scoperta su un piccolo promontorio che si protende nella palude intorno a Ilsted, nel sud della Danimarca. Il promontorio è circondato su tre lati da zone umide e offre a malapena lo spazio per un comune podere dell'età del ferro germanico (400-550 d.C.). Secondo gli studiosi ci sono indicazioni che il sito abbia avuto una funzione diversa rispetto a una normale fattoria. Ma più indagini in loco devono determinarlo. Dalla Danimarca si conoscono solo una decina di collane simili. Quella di Ilsted, però, risulta essere abbastanza insolita, sia per la piastra saldata sul suo retro e l'ampio fregio con sottili fili d'oro, sia per il luogo del suo ritrovamento. 

La collana pesa  446 grammi, una frazione sotto una libbra, ed è larga 20 centimetri nel punto più largo. È costituita da un lungo pezzo d'oro a forma di bastoncino ripiegato su se stesso alle estremità per creare una forma ad anello. Le estremità si sovrappongono per circa 1/3 della lunghezza della collana e una placca d'oro è saldata sul retro per creare una terza tela. Le estremità sovrapposte dell'asta sono decorate con una depressione a forma di mezzaluna impressa nell'oro. La decorazione è così meticolosamente dettagliata che le forme a mezzaluna sui due anelli sono leggermente diverse: le mezzelune sull'anello esterno hanno otto avvallamenti decorativi al loro interno, le mezzelune su quelli interni ne hanno sei. La placca d'oro ha sei fili d'oro a coste nella parte inferiore, intrecciati insieme a due a due per creare un effetto chevron. Un filo d'oro attorcigliato a spirale scorre al centro della treccia.In Danimarca sono state trovate solo dieci collane d'oro comparabili con decorazioni stampate, e questa è di gran lunga la più elaborata.

Precedenti esempi di "anelli da collo" di questo periodo sono stati trovati in coppia. Questo è l'unico esemplare con una piastra saldata con intricate decorazioni a filo. È stato scoperto con il metal detector da Dan Christensen nell'ottobre 2021. Christensen lavora come esploratore archeologico per il Museo dello Jutland sudoccidentale. Nella settimana successiva alla scoperta, l'intero campo è stato scansionato per verificare se ci fossero altri oggetti preziosi, disseminati nell'area. 

Non è emerso nulla. Un successivo scavo del sito ha rivelato prove di un insediamento sotto un sottile strato di terreno arato, compresi i fori dei pali portanti del tetto di più case lunghe a tre navate datate tra il 300 e il 600 d.C.. La collana è stato trovata all'interno di una delle case. Gli archeologi ritengono che sia stato sepolto dove è stato trovato. Questo è un contesto insolito per oggetti simili, poiché la maggior parte di essi è stata trovata nelle zone umide dove venivano depositati come offerte votive agli Dei. Il sito del ritrovamento si trova su un promontorio circondato da paludi su tre lati. Il fatto che questa collana sia stata sepolta all'interno di una casa, quando le zone umide erano disponibili a pochi passi in ogni direzione, suggerisce che fosse stata deliberatamente nascosta per tenerla al sicuro durante un periodo di pericolo o agitazione, ma il proprietario non è mai stato in grado di recuperarlo.


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022

Gli ultimi sondaggi effettuati a Rapa Nui mostrano che gli insediamenti e i siti dove sono ubicati i giganteschi Moai di pietra sono marcatori di sofisticate tecnologie edificate anticamente per attingere a sorgenti d’acqua potabile sotto il mare…

Gli ultimi sondaggi effettuati a Rapa Nui mostrano che i Moai sono marcatori di misteriose strutture edificate anticamente sopra sorgenti artificiali di acqua rituale…


a cura della redazione, 4 marzo

Gli scienziati hanno finalmente risolto il mistero di come gli abitanti di Rapa Nui potessero dissetarsi bevendo direttamente dal mare. Lo riportavano i resoconti degli europei che nel XIX secolo arrivarono per la prima volta sull’Isola di Pasqua. Qui non ci sono sorgenti visibili, né fiumi o torrenti, ma solo tre piccoli laghi craterici, che possono prosciugarsi durante i periodi di siccità. Ciò significa che anticamente l'acqua dolce, su questo piccolo punto di terra nel Pacifico, era scarsa. I sondaggi effettuati sul terreno hanno dimostrato, però, che gli insediamenti del popolo che costruì i Moai, e le piattaforme su cui erano collocate le gigantesche statue monolitiche, si trovano quasi tutti sulla costa, vicino a fonti nascoste, che a quanto pare richiesero la costruzione di "dighe" sottomarine, presumibilmente molto più antiche dei primi coloni. Chi e come le abbia costruite non è ancora chiaro. In un nuovo studio, pubblicato a metà del 2021, rimasto poco noto, tali fonti artificiali di acqua dolce sono descritte come il fulcro della vita e della cultura delle comunità di Rapa Nui, non solo per sopravvivere a lunghi periodi di siccità. Erano luoghi sacri ancestrali.

LO SAPEVI CHE - Nella zona dell'Hanga Ho'onu troviamo due impressionanti ahu, Ahu Heki'i e Ahu Te Pito Kura, entrambi circondati da estesi insediamenti umani e da evidenti luoghi rituali. Ahu Te Pito Kura è il luogo del più grande moai. Il suo pukao (cappello rosso) è il più grande di tutte le sculture presenti sull'isola. Il moai ha un’altezza di quasi 10 metri e probabilmente pesa circa 80 tonnellate. Il pukao ha dimensioni altrettanto impressionanti, 2 metri di altezza e un possibile peso di 11,5 tonnellate. Quello di Hekii misura invece circa 5 metri di altezza. La modellazione cronologica bayesiana indica che Ahu Heki’i fu eretto 70 anni dopo l'insediamento umano iniziale di Rapa Nui e le analisi del modello di insediamento mostrano un'occupazione continua della regione di Hanga Ho'onu durante tutto il pre-contatto e all'inizio del periodo storico, suggerendo fortemente una lunga associazione temporale tra attività domestica e rituale adiacente a una sorgente di acqua dolce.

Questa stranezza della natura era stata aggiunta all’elenco dei misteri locali. Perché scrivere che "bevevano dal mare"? In un primo momento gli studiosi hanno pensato che si riferissero al ciclo dell'acqua e all'acqua piovana raccolta dai taheta, piccoli bacini di pietra scolpita sparsi in tutta l'isola.  Non riuscivano a spiegarsi, però, perché mano a mano che si sale, lontano dalla costa, se ne trovano sempre meno? Senza considerare che questi presunti bacini di raccolta dell'acqua dal cielo erano inaffidabili come fonti permanenti, date la variabilità delle precipitazioni e gli alti tassi di evapotraspirazione. Durante le loro indagini, i ricercatori hanno scoperto che l’approvvigionamento di acqua potabile proveniva da “infiltrazioni costiere” d’acqua dolce, in perfetta corrispondenza con i siti cultuali dell'isola cilena, che si trova nel punto più sudorientale del Triangolo Polinesiano in Oceania.

IL SIMBOLISMO DELL'ACQUA

 La nozione di acque primordiali, di oceano delle origini è pressoché universale. Si trova persino in Polinesia e la maggior parte dei popoli australoasiatici localizza nell’acqua il potere cosmico. Si rileva con frequenza nel mito dell’animale che si tuffa, come il jabali indu che riporta un po’ di terra in superficie. Origine e veicolo di tutta la vita l'acqua è saggezza e in certe allegorie tantriche rappresenta il Prana o soffio vitale. Sul piano fisico, perché anche dono del Cielo, è un simbolo universale di fertilità. Come elemento liquido, instabile, ricettivo e dissolvente, circola, bagna e feconda. I suoi significati simbolici sono molteplici, ma possono ridursi a tre temi principali: fonte di vita, mezzo di purificazione e centro di rigenerazione. Le acque, come massa indifferenziata, rappresentano l’infinita varietà del possibile, contenente tutto ciò che è virtuale, informale, il nucleo germinale delle cose, ogni premessa dello sviluppo. Immergersi per riemergere senza dissolversi in esse, salvi da una morte simbolica, significa tornare alla fonte originaria ricorrere all’immenso deposito di potenziale da cui estrarre nuove forze. In quest'ottica le sorgenti di Rapa Nui rappresentano le fonti della Linfa Primordiale che riemerge dal cuore della Terra attraverso le sue vene con le quali ridistribuisce l'”acqua di vita”, la linfa divina, dolce all’inizio, intorbidata da tutte le scorie e da tutti i detriti, fino a divenire amara e salata quando forma la massa oceanica che circonda l'isola.

Incredibilmente, le prove archeologiche hanno dimostrano l'uso di tecniche di gestione per intrappolare le acque dolci sotterranee prima che si mescolino con l'acqua di mare. Questo è meglio documentato attraverso la costruzione di "pozzi" noti come puna, scavati, a tratti lastricati e talvolta murati.

LO SAPEVI CHE - Rapa Nui e le sorgenti d'acqua dolce citate nei resoconti storici (DEM proveniente da https://earthexplorer.usgs.gov) - Nel suo primo lavoro etnografico, “La Tierra de Hotu Matu’a: Historia, Etnologia, y Lengua de Isla de Pascua”, Sebastian Englert rilevava l’esistenza di una grande ritenzione idrica caratteristica, ora distrutta, all’interno di Hanga Te’e che serviva a bloccare la miscelazione dell’acqua dolce con acqua salata. 

Con l’aiuto dei droni, gli studiosi hanno acquisito una comprensione più profonda di come la gente di Rapa Nui si garantisse tale approvvigionamento idrico. Gli antropologi hanno scoperto che la raccolta dell'acqua dolce avveniva prevalentemente dalle sacche di infiltrazioni costiere, e che erano state costruite vere e proprie "dighe sottomarine" nell’oceano per mantenere l’acqua dolce separata da quella marina, oltre a pozzi che la reindirizzavano dalla falda acquifera prima di raggiungere il mare. 

Per identificare le infiltrazioni costiere, gli studiosi hanno utilizzato la tecnologia dei droni con termocamere, una pratica utilizzata in studi simili in luoghi come le Hawaii. La ricerca con il telerilevameto, è stata guidata da Robert Di Napoli, del Dipartimento di Scienze Geologiche della Binghamton University di New York, in collaborazione con il Programma di Studi Ambientali del Dipartimento di Antropologia dell’Harpur College, e la Scuola di Antropologia dell’Università dell’Arizona. Secondo Di Napoli, l’acqua piovana dell’Isola di Pasqua affonda direttamente attraverso il substrato roccioso in una falda acquifera sotterranea, un corpo di roccia porosa o sedimento in cui si concentra l’acqua. Questa poi emerge lungo la costa sotto forma di “infiltrazioni costiere”, sacche di acqua dolce che gocciolano nell’oceano. 

Gli abitanti di Rapa Nui usavano anche fonti d'acqua interne come i laghi e i crateri. A Ava RangaUka e a Toroke Hau costruirono un bacino rivestito di pietra grande migliaia di metri quadri, probabilmente utilizzato per intrappolare il deflusso superficiale e il trabocco da Rano Aroi. Un'impresa tecnologica imponete, ma a destare la curiosità degli scienziati sono state alcune delle località prossime alla battigia, dove è stata rilevata una quantità inspiegabile di acqua "dolce" e fresca che esce dalle infiltrazioni. Come è possibile? Sorgenti nascoste che, come abbiamo detto all'inizio, sono state identificate in tutta l’isola, nonostante le condizioni asciutte dei laghi vulcanici. 

LO SAPEVI CHE - Lo stesso schema di associazione tra rituali, caratteristiche domestiche e sorgenti di acqua dolce si verifica a Te Ipu Pu e Te Peu, dove le immagini aeree mostrano un grande edificio (hare paenga) e giardini recintati (manavai). 

Da dove proviene allora quell'acqua dolce? Indagando, gli studiosi hanno scoperto che rimaneva nelle falde acquifere sotterranee per lunghi periodi di tempo prima di filtrare nell’oceano, grazie a strutture artificiali costruite anticamente. Da chi? Forse erano lì prima. I ricercatori pensano, comunque, che le statue siano legate a tali punti nevralgici per la sopravvivenza del popolo che le ha erette e che fossero anche dei marcatori che indicavano dove si trovava tale elemento, non solo indispensabile per la vita, ma legato ad antichi culti rituali. Un nuovo mistero ancora tutto da risolvere…


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022

Uno studio internazionale della Valle del Sado, in Portogallo, suggerisce che i popoli mesolitici europei potrebbero aver eseguito trattamenti come l’essiccazione attraverso la mummificazione già 8.000 anni fa...

Uno studio internazionale della Valle del Sado, in Portogallo, suggerisce che i popoli mesolitici europei potrebbero aver eseguito trattamenti come l’essiccazione attraverso la mummificazione già 8.000 anni fa…


a cura della redazione, 3 marzo

Fino ad ora, i casi più antichi di mummificazione intenzionale erano noti dai cacciatori-raccoglitori Chinchorro che vivevano nella regione costiera del deserto di Atacama nel nord del Cile circa 7.000 anni fa, tuttavia, la maggior parte delle mummie sopravvissute in tutto il mondo sono più recenti, databili tra pochi cento anni e fino a 4000 anni fa. Fotografie scoperte di recente dagli scavi degli anni ‘60 nella Valle del Sado hanno permesso agli archeologi di ricostruire le posizioni in cui furono sepolti i corpi, fornendo un’opportunità unica per saperne di più sui rituali funerari che si svolgevano 8.000 anni fa. 

Questa scoperta è stata fatta dai ricercatori in connessione con un’analisi di tombe del Mesolitico, Mesolitico, in Portogallo. I risultati dello studio, condotto in collaborazione tra l’Università di Uppsala, l’Università di Linnaeus e l’Università di Lisbona, sono stati pubblicati sull’European Journal of Archaeology. Lo studio a combinato archeologia e archeotanatologia, un metodo utilizzato per documentare e analizzare i resti umani, raffrontando la decomposizione umana con le osservazioni della distribuzione spaziale delle ossa, con la collaborazione del Forensic Anthropology Research Facility presso la Texas State University. Gli archeologi hanno così potuto ricostruire come il cadavere sia stato maneggiato dopo la morte e come sia stato sepolto, anche se sono trascorsi diversi millenni. L’analisi ha mostrato che alcuni corpi erano sepolti in posizioni estremamente flesse con le gambe piegate all’altezza delle ginocchia e posti davanti al petto. 

L’iperflessione degli arti, l’assenza di disarticolazione in parti significative dello scheletro e un rapido riempimento di sedimenti attorno alle ossa indicano, secondo gli studiosi, un processo di mummificazione. Durante la decomposizione, infatti, le ossa di solito si disarticolano in corrispondenza delle giunture deboli, come i piedi, ma nei casi studiati sono rimaste in posizione. I ricercatori propongono che questo schema di iperflessione e mancanza di disarticolazione potrebbe essere spiegato se il corpo non fosse stato deposto nella tomba come un cadavere fresco, ma in uno stato essiccato come un cadavere mummificato. “Questi sono reperti insoliti. Le mummie più famose al mondo sono significativamente più giovani e si stima che abbiano un’età compresa tra 4.000 e un paio di centinaia di anni. Ma possiamo dimostrare che i corpi venivano intenzionalmente trattati per essere essiccati e mummificati prima della sepoltura già nel Mesolitico. Tale forma di rituale di sepoltura non è mai stata dimostrata prima nell’età della pietra dei cacciatori europei”, afferma nel comunicato stampa Rita Peyroteo Stjerna, archeologa e ricercatrice dell’Università di Uppsala, che insieme a Liv Nilsson Stutz dell'Università di Linnaeus è la prima autrice dello studio. 

L’essiccazione non solo mantiene alcune di queste articolazioni altrimenti deboli, ma consente anche una forte flessione del corpo poiché l’intervallo di movimento aumenta quando il volume dei tessuti molli è minore. Poiché i corpi sono stati essiccati prima della sepoltura, c’è pochissimo o nessun sedimento presente tra le ossa e le articolazioni sono mantenute dal continuo riempimento del terreno circostante che sostiene le ossa e impedisce il collasso delle articolazioni. I ricercatori suggeriscono che i modelli osservati potrebbero essere il prodotto di un processo di mummificazione naturale guidato. La manipolazione del corpo durante la mummificazione sarebbe avvenuta per un lungo periodo di tempo, durante il quale il corpo si sarebbe gradualmente essiccato per mantenere la sua integrità corporea e contemporaneamente si sarebbe contratto legandosi con una corda o bende per comprimerlo nella posizione desiderata. 

Al termine del processo, il corpo sarebbe stato più facile da trasportare, essendo più contratto e significativamente più leggero del cadavere fresco, assicurando che fosse sepolto mantenendo il suo aspetto e l’integrità anatomica. Se la mummificazione in Europa è più antica di quanto suggerito in precedenza, emerge una serie di intuizioni relative alle pratiche funebri delle comunità mesolitiche, inclusa una preoccupazione centrale per il mantenimento dell’integrità del corpo e la sua trasformazione fisica da cadavere a mummia curata. Queste pratiche sottolineerebbero anche il significato dei luoghi di sepoltura e l’importanza di portare i morti in questi luoghi in modo da contenere e proteggere il corpo, seguendo principi culturalmente regolati, evidenziando il significato sia del corpo che del luogo di sepoltura in Portogallo mesolitico 8.000 anni fa.


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022

Da tempo si pensava che il sito megalitico fungesse da calendario antico, dato il suo allineamento con i solstizi. Ora, la ricerca ha identificato come potrebbe aver funzionato, individuando connessioni con l'Antico Egitto…

Da tempo si pensava che il sito megalitico fungesse da calendario antico, dato il suo allineamento con i solstizi. Ora, la ricerca ha identificato come potrebbe aver funzionato, individuando connessioni con l'Antico Egitto…   


a cura della redazione, 2 marzo 

Nuove scoperte sulla storia del gigantesco cerchio di pietre britannico, insieme all’analisi di altri antichi sistemi calendariali, hanno spinto il professor Timothy Darvill guardare Stonehenge in una nuova ottica. La sua analisi, pubblicata sulla rivista Antiquity, ha concluso che il sito è stato progettato come un calendario solare e non lunare, come ipotizzato in precedenza. “Il chiaro allineamento solstiziale di Stonehenge suggerivano che il cerchio di sarsen rifletta un mese di 30 giorni - afferma Darvill in un comunicato stampa della Bournemouth University - ma le nuove scoperte hanno messo a fuoco la questione e indicano che il sito era un calendario basato su un anno solare tropicale di 365,25 giorni”. 

Secondo Darvill, i 360 giorni dei 12 mesi che compongono l'anno erano seguiti da cinque giorni epagomenali, segnati dai cinque massicci "triliti" - coppie di sarsen sormontate da una terza pietra dell'architrave - all'interno del cerchio principale (due dei montanti dei triliti e due degli architravi sono ora mancanti). Ricerche recenti, infatti, avevano dimostrato che i sarsen di Stonehenge erano stati aggiunti durante la fase di costruzione intorno al 2500 a.C.. Provenivano dalla stessa zona e successivamente sono rimasti nella formazione. Ciò indica che il luogo fu lavorato come una singola unità. In quanto tale, Darvill ha analizzato queste pietre, esaminandone la numerologia e confrontandole con altri calendari conosciuti di questo periodo. Il professore ha identificato un calendario solare nella loro disposizione, suggerendo che servissero come rappresentazione fisica dell’anno, che aiutava gli antichi abitanti del Wiltshire a tenere traccia dei giorni, delle settimane e dei mesi per celebrare precisi rituali e cerimonie, come nell'Antico Egitto. “Il calendario proposto funziona in modo molto semplice. Ognuna delle 30 pietre nel cerchio di sarsen rappresenta un giorno all’interno di un mese, diviso a sua volta in tre settimane ciascuna di 10 giorni”, afferma lo studioso, osservando che le pietre distintive segnano l'inizio di ogni settimana. Inoltre, per corrispondere all’anno solare erano necessari un mese intercalare di cinque giorni e un giorno bisestile ogni quattro anni. 

LO SAPEVI CHEIncastonato nell'impronta e nell'architettura di tutti e tre gli elementi sarsen c'è un unico asse astronomico coerente: una linea orientata da nord-est a sud-ovest. Questa linea unisce i punti degli orizzonti localmente visibili dove il sole sorge durante il solstizio d'estate a nord-est e tramonta durante il solstizio d'inverno a sud-ovest. Questo è l'unico grande allineamento incorporato nell'architettura di Stonehenge, sebbene il posizionamento del trilito sud-occidentale incorpora un asse solstiziale secondario strettamente correlato basato sulle posizioni dell'orizzonte del sole di metà inverno che sorge a sud-est e del sole di mezza estate che tramonta a nord-ovest.

Il mese intercalare, probabilmente dedicato alle divinità del sito, è rappresentato dai cinque triliti al centro - spiega il ricercatore - le quattro Station Stones al di fuori del circolo sarsen forniscono marcatori per la tacca fino a un salto del giorno”. In quanto tali, i solstizi d’inverno e d‘estate sarebbero incorniciati dalle stesse coppie di pietre ogni anno. Uno dei triliti inquadra anche il solstizio d’inverno, indicando che potrebbe essere stato legato al nuovo anno. Questo allineamento solstiziale aiuta a calibrare il calendario: eventuali errori nel conteggio dei giorni sarebbero facilmente rilevabili, poiché il sole sarebbe risultato nel posto sbagliato in corrispondenza dei solstizi. 

LO SAPEVI CHE - All'interno del circolo di sarsen ci sono cinque triliti disposti a forma di ferro di cavallo che si aprono a nord-est. Tutte le pietre sopravvivono sul posto, anche se alcune sono cadute. Il trilito sud-occidentale è il più alto e il più grande; le altre si riducono in altezza verso nord-est, dando risalto sia verticale che orizzontale al trilito sud-occidentale. Tutte le pietre del ferro di cavallo sono state modellate e rifinite, con incastri a tenone che fissano gli architravi ai montanti.

Un tale calendario, con settimane di 10 giorni e mesi extra, può sembrare insolito oggi. Tuttavia, calendari come questo furono adottati da molte culture durante lo stesso periodo. “Un calendario solare simile fu sviluppato nel Mediterraneo orientale nei secoli successivi al 3000 a.C. ed è stato adottato in Egitto come calendario civile intorno al 2700 ed è stato ampiamente utilizzato all’inizio dell'Antico Regno intorno al 2600 a.C.”, ricorda Darvill. Ciò solleva la possibilità che il calendario tracciato da Stonehenge possa derivare dall’influenza di una di queste culture. I ritrovamenti nelle vicinanze suggeriscono tali connessioni: il vicino arciere di Amesbury, sepolto nelle vicinanze nello stesso periodo, è nato sulle Alpi e si è trasferito in Gran Bretagna da adolescente. Il professor Darvill spera che la ricerca futura possa far luce su queste possibilità. DNA antico e reperti archeologici potrebbero darne la prova definitiva. Trovare un calendario solare rappresentato nell’architettura di Stonehenge apre un modo completamente nuovo di vedere il monumento come un "luogo per i vivi", un luogo in cui i tempi delle cerimonie erano collegati al tessuto stesso del universo e movimenti celesti, che testimonia l'esistenza di una Tradizione unica.


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022

Scoperte le sepolture più occidentali dell'ancestrale cultura nomade. Al loro interno le ossa di uomini più alti della media, ricoperte da una tintura rossa, sepolte 5.000 anni fa...

Scoperte le sepolture più occidentali dell'ancestrale cultura nomade. Al loro interno le ossa di uomini più alti della media, ricoperte da una tintura rossa, sepolte 5.000 anni fa...


a cura della redazione, 1 marzo 

Camere tombali in legno sono state trovate in due tumuli nel nord della Serbia da un team di ricercatori dell’Accademia delle Scienze polacca. Siamo nella regione di Šajkaška, nel distretto autonomo della Vojvodina, sul basso Tisa, al confine occidentale della steppa eurasiatica. I tumuli sono inscritti in un grande cerchio che misura 40 metri di diametro, e hanno un’altezza di 3-4 metri. Entrambi sembra siano stati costruiti in due fasi. Inizialmente, quando furono seppelliti i primi defunti circa 5.000 anni fa (3000-2900 a.C.), erano molto più piccoli. Dopo circa 100-200 anni i loro diametri e le loro altezze furono notevolmente aumentati, con l’aggiunta di un’ulteriore sepoltura. 

La campagna di scavi, in collaborazione con il Museo della Vojvodina a Novi Sad, è iniziata tra il 2016 e il 2018. Solo ora, però, sono stati ottenuti i primi risultati scientifici dalle analisi. Gli archeologi credono che le persone sepolte qui fossero leader della comunità. Alcune delle tombe, infatti, erano riccamente attrezzate con armi, ornamenti e piatti decorati. La catterstica che ha attirato l'attenzione degli studiosi è stata la colorazione rossa di alcune ossa, come spiega su Science in Poland Piotr Włodarczak, dell’Istituto di Archeologia ed Etnologia dell’ente polacco. Secondo l’esperto, in quel periodo era un colore sacro utilizzato durante i riti funebri. I resti appartenevano a un uomo alto oltre un metro e ottanta. Sia l’uso dell’ocra che l’altezza superiore alla media dei defunti indicano che non si tratta di autoctoni. Chi erano?

Gli uomini che vivevano in questa parte dell’Europa, a cavallo tra il IV e il III millennio a.C., erano generalmente alti circa un metro e sessanta. L’analisi genetica dei resti ossei suggerisce che i defunti provenivano dall’Est. Non è chiaro se fossero appena arrivati o fossero i discendenti diretti dei nuovi arrivati. Sono stati prelevati anche campioni per le analisi isotopiche, che hanno determinato una dieta alimentare a base di carne, tipica di una comunità dedita all’allevamento. Poiché il rituale che prevede l’uso dell’ocra e la sepoltura in grandi tumuli sono entrambi associati alle comunità che vivono nelle steppe dell’Europa orientale, Włodarczak e i suoi colleghi ritengono che tale combinazione sia assimilabile alle pratiche di sepoltura degli Yamnaya, un popolo nomade proveniente dalle steppe meridionali dell’odierna Russia e Ucraina, che secondo gli studiosi mutarono significativamente la situazione culturale dell’Europa, proprio in quel periodo. Allora i rituali funebri e il metodo di fabbricazione dei vasi di ceramica cambiarono e iniziarono ad emergere i centri e le élite proto-statali dell’età del bronzo, di cui gli enormi tumuli sono espressione.

Si tratta della quarta tribù ancestrale che ha contribuito al moderno pool genetico europeo.  Una ricerca, pubblicata nel 2015 su Nature Communications, mostra che gli europei siano una miscela di tre principali popolazioni (cacciatori indigeni, agricoltori mediorientali e una popolazione arrivata dall'est nell'età del bronzo), cui si è aggiunto il DNA di antichi resti recuperati nel Caucaso di una quarta popolazione che si sarebbe nutrita del mix. Il primo strato di ascendenza europea, i cacciatori-raccoglitori indigeni, entrarono in Europa prima dell'era glaciale, 40.000 anni fa, 33.000 anni dopo furono travolti da una migrazione di un popolo proveniente dal Medio Oriente, che introdusse l'agricoltura. Circa 2.000 anni dopo, nel 5000 a.C., i pastori chiamati Yamnaya entrarono in Europa dalla regione della steppa orientale. Tale popolo ha avuto un impatto importante sulla genetica dei popoli settentrionale e centrali. Alcune popolazioni, come i norvegesi, oggi devono circa il 50% dei loro antenati a questi pastori della steppa. Ma gli Yamnaya erano essi stessi una popolazione mista. Circa la metà dei loro antenati proveniva da un gruppo gemello dei cacciatori-raccoglitori che abitavano l'Europa prima dell'avvento dell'agricoltura, mentre l'altra metà sembra provenire da una popolazione imparentata, ma notevolmente diversa dai migranti mediorientali che l'hanno introdotta. La loro vera origine resta un mistero...


RIPRODUZIONE RISERVATA ©Enigmaxnews2022